domenica 19 luglio 2015

Il migliore dei Paradisi possibili?

In assenza di neuroni e di collegamenti neuronali su cui far affidamento per la mia lucidità, propongo uno stralcio curioso del libro che ho appena finito di leggere, con piacere aggiungerei. Buona lettura a tutt*!

"Ho avuto un'idea" le dissi. Be' bisogna pure presentarsi con qualcosa dopo tanto tempo, non vi pare? "Mi ascolti: se in Paradiso è possibile avere tutto ciò che ci pare e piace, perché non si dovrebbe voler essere qualcuno che non si sazia mai dell'eternità?" Mi appoggiai con le spalle allo schienale, alquanto compiaciuto. Con mia viva sorpresa lei annuì, quasi incoraggiante.
"Se vuol fare questo tentativo, noi siamo d'accordo. Non ha che da provare" disse Margaret. "Posso procurarle il permesso di trasferimento."
"Ma...?" domandai, consapevole che ci sarebbe stato un ma.
"Le farò avere il permesso di trasferimento" ripeté lei. "E' soltanto una formalità."
"Prima mi dica il ma." Non volevo apparirle scortese, ma parimenti non mi andava di trascorrere millenni per sapere se fosse stato possibile preservarmi il tempo per sempre.
"Altri hanno già tentato prima d'ora" disse Margaret, in tono aperto e cordiale, come se realmente non avesse voluto contrariarmi.
"Allora qual è il problema? In che cosa consiste il ma?"
"Be' sussiste una difficoltà d'ordine logico. Lei non può diventare un altro senza cessare di essere chi è. Nessuno, questo, se lo può permettere. A ogni modo il problema che si pone è questo" aggiunse, lasciando quasi intendere che avrei potuto essere io il primo a superarlo. "Qualcuno - un tale portato agli sport, proprio come lei, ha dichiarato che voleva cessare di essere un corridore per diventare una macchina in moto perpetuo. Dopo un breve intervallo, ecco che volete ricominciare a correre. Non le sembra inconcepibile?"
Annuii. "E tutti quelli che ci hanno provato hanno chiesto il permesso di poter tornare indietro?"
"Infatti."
"E poi hanno optato in massa per la morte?"
"Esattamente. E senza por tempo in mezzo. Credo che ce ne sia ancora qualcuno in circolazione. Potrei convocarli, se lei desiderasse interpellarli in proposito."
"No, mi basta la sua parola. Lo sapevo che doveva esserci un ostacolo a intralciare la mia idea."
"Mi dispiace."
"No, lei non ha motivo di scusarsi." Non potevo certo lamentarmi del trattamento che mi era stato accordato. Fin dagli inizi tutti con me si erano mostrati correttissimi. Trassi un profondo respiro "A me sembra" proseguii "che il Paradiso sia una gran bella idea. Anzi ottima, lei potrebbe dire, ma non per noi. Dato il modo in cui siamo, voglio dire."
"A noi non piace influire sulle conclusioni" disse lei. "A ogni modo comprendo il suo punto di vista."
"Ma allora perché? A che scopo avere un Paradiso? Perché avere tutti questi sogni imperniati sul Paradiso?". Lei non dava segno di voler rispondere, forse voleva mostrarsi professionale. Io tuttavia insistetti. "Suvvia, mi dia qualche idea."
"Forse perché ne avete bisogno" osservò lei. "Perché non potete tirare avanti rinunciando al sogno. Ma perché vergognarsene? Non ce n'è motivo. A me sembra del tutto normale. Anche se ho una convinzione personale: se foste informati sul Paradiso in anticipo, forse non ci terreste tanto."
"Bah, in quanto a questo non le so rispondere." Tutto era stato semplicemente delizioso: lo shopping, il golf, il sesso, l'incontro con personaggi illustri, il non sentirmi niente male, il non essere morto.

(da "Una storia del mondo in 10 capitoli e 1/2" di Julian Barnes)

martedì 31 marzo 2015

Esuli di spirito: Jean Rhys e Antoinette (Parte I)

Avete mai avuto voglia di scoprire quali storie si nascondano dietro le figure marginali di un quadro o di un libro? La curiosità spesso ha la meglio e ci si chiede insistentemente perché il pittore abbia ritratto il volto delizioso ma meditabondo di una giovane donna che non vuole davvero prender parte alle presumibilmente piacevoli conversazioni che la circondano. Non si può fare a meno di chiedersi: che segreto nasconde? A cosa sta pensando? Lasciando andare la fantasia a briglie sciolte si può creare di tutto, idealizzare e mitizzare una figura cucendosela addosso. E chi meglio di uno scrittore è capace di tagliare la realtà, intarsiarla e ricomporsela addosso, secondo le proprie forme?

È con quest'intenzione che la sottovalutatissima Jean Rhys, scrittrice britannica di origini caraibiche che visse i ruggenti anni '20 europei, ha finito per confezionare un vestito particolare a Bertha, la moglie “pazza” e rinchiusa dal tormentato Mr. Rochester, nel romanzo “Il grande mare dei sargassi”. Quest'opera le valse nel 1967 il WH Smith Literary Award, premio letterario inizialmente destinato a tutti gli scrittori della Gran Bretagna, dell'Irlanda e del Commonwealth - includendo così anche i contributi, altrimenti marginali, degli scrittori delle ex-colonie britanniche. Questo dato non è assolutamente indifferente perché sia Jean Rhys che Bertha Mason (il cui vero nome è Antoinette), come forse ricorderete da "Jane Eyre", sono visceralmente legate alle loro origini caraibiche. Bertha Mason si diceva, infatti, fosse una ricca ereditiera giamaicana che Mr. Rochester sposò per interesse economico e su pressione della famiglia che lo voleva redimere dalla sua precedente vita da libertino. 


Entrambe si allontanano dalla loro terra d'origine, per motivi tuttavia differenti (la Rhys per la propria formazione, Antoinette per il matrimonio combinato cui va incontro), e si ritrovano catapultate in una realtà che le tiene ai margini con indifferenza oppure le considera soltanto in funzione dei preconcetti che le riguardano. In ogni caso torna un tema cliché del Novecento: la perdita di radici, o rootlessness. La sensazione di sradicamento è tanto forte nell'intreccio quanto evidente nell'attenzione apprensiva con cui Jean Rhys dà spessore a Bertha, il cui vero nome è modificato dalla volontà del marito. L'autrice ricostruisce la sua storia senza finzioni (anche se nasconde tutto in un gioco di specchi sofisticato), facendo attenzione a non calcare la mano laddove fa più male perché, lo si può immaginare, si tratta anche della sua stessa storia. Cerca di non renderla vittima, perché altrimenti sarebbe come autocommiserarsi; allora non può che renderla un'eroina tragica, schiacciata dal peso di ben due società, quella giamaicana e quella inglese, di cui è entrata a far parte tramite il matrimonio con Mr. Rochester. Analogia non indifferente con l'autrice, di cui abbiamo pochi dati biografici ma essenziali: ambiziosa e intelligente, ha pagato caro il prezzo della propria libertà, finendo nella miseria più nera e nell'indifferenza della società parigina, certamente più moderna di quella ottocentesca ma pur sempre patriarcale, che la fece sentire sempre come un elemento di disturbo nello status quo. 

 L'eroina del romanzo è in sostanza una donna a cui hanno rubato dapprima la terra, la famiglia, il nome ed infine la libertà in un vortice sempre più soffocante di privazione e sacrificio in nome di stabilità economica e di convenzioni che finiranno per rivelarsi nulla, se non parole vuote. Un vuoto che non ha nulla a che vedere con la materia pulsante di cui è composta Antoinette: sensuale e indolente, tratteggiata nella sua concretezza inebriante, persa nei gesti quotidiani che tutti, sia bianchi che neri, fraintendono e piegano ai propri pregiudizi nel tentativo d'incanalarla in una voce che non è la sua. 

Emblematico è quindi che la sua disfatta avvenga quasi del tutto senza la sua voce: i pettegolezzi la anticipano, altri garantiscono o parlano indirettamente per lei. Anche quando lei ha la parola in realtà non ha il potere di cambiare l'opinione degli altri (di Mr. Rochester o di chicchessia) così fermamente convinti di aver scoperto la malizia di una donna alcoolizzata, lussuriosa e bugiarda. Un soggetto degno di essere punito nella società patriarcale della potenza imperialista inglese -tanto più che la nostra cara Antoinette è una creola giamaicana, discriminata tanto dai neri quanto dai bianchi, in quanto “negra bianca”, troppo ricca e ben vestita per essere nera, troppo spontanea e selvatica per essere una lady inglese. 

Verso l'epilogo, quando torniamo a sentirla, la sua voce s'è fatta ormai un sussurro incomprensibile, flebile e sibillino. Un delirio senza fine. È nella fantasmagoria che ci lascia senza fiato, mostrandoci come all'improvviso la sua vita, da sempre così scissa fra identità mai realmente conciliabili (la cultura inglese ed il suo “sentire” creolo, l'amore per la propria terra e la repulsione dei nativi neri, il denaro come mezzo di riscatto e il disgusto per il denaro che le toglie infine la libertà), abbia finalmente trovato una direzione inesorabile e tragica. È dal suo vestito rosso, dapprima amato da Mr. Rochester ed infine tacciato di “immoralità”, che si sprigionano le fiamme della disfatta – o forse della rinascita, come la cultura Voodoo credeva? 

P.S. Mi son lasciata trasportare dalle sensazioni che questa lettura mi ha suscitato. Mi sembrava un peccato buttar via anche questa bozza, stranamente conclusa dopo una decina di giorni di sconforto per la mancanza di mezzi espressivi per esporre quest'opera. Potrete trovare a breve (con: Parte II - Appunti di critica post-colonialista: Jean Rhys) la continuazione della mia riflessione su questo libro, di cui si potrebbe dire così tanto. Sarebbe per me un modo legittimo di consigliarlo in maniera chiara e lineare, soffermandomi anche sullo stile, oltre che sulle sue idee. Operazione estremamente difficile dal momento che la Rhys fa scivolare il lettore in un effluvio di sensazioni e colori che si sprigionano senza possibilità di soluzione.

domenica 15 marzo 2015

Virare quando l'intenzione cambia

Grazie a Dio esistono momenti d'insonnia che si rivelano molto produttivi, per mia fortuna. In un raptus di follia creativa e di ritorno da una serata tranquilla (dove la testa ha avuto modo di macinare in maniera frenetica, pur con un sottofondo musicale piacevole) mi sono domandata in piena onestà per quale motivo avessi aperto questo blog.

Correlativo oggettivo della mia rinnovata pace, amen? (*)
Blog trascuratissimo, davvero maltrattato. Eppure non mancava l'intenzione! Ogni volta che finivo di leggere un libro o di guardare un certo film mi dicevo: "ci scriverò qualcosa sopra, voglio ricordarmi le sensazioni che ho provato, voglio far sapere che mi è piaciuto, etc". Ma ogni volta che accadeva? Non mi bastava dire cosa avevo provato io, inesperta ma apprendista in molti campi. Non era abbastanza perché mi sembrava banale, troppo personale, poco alla portata di tutti. Mi sarei messa al centro dell'attenzione, alla mercé di un pubblico a me ignoto. Così cercavo di trasmettere dati più oggettivi e tecnici che si proponessero di diventare opinioni serie su qualcosa. Da qui la mia difficoltà di chiamare "recensioni" le opinioni che cercavo di esprimere.
Perché cercare di essere seria, tecnica? Ebbene, alla base di tutto sta un fatto personale: nonostante la mia esteriore e bonaria (oltre che stupida; chi mi conosce di persona lo sa benissimo) spavalderia sono sempre stata un'insicura cronica e questa ne è l'ennesima conseguenza. Perché, in fondo, non volevo deludere il potenziale lettore di questo blog che, nella mia immaginazione, era seriamente intenzionato a cogliere i miei consigli. Perché volevo riuscire a rispondere ad un'alta aspettativa?

Queste domande sono nate spontaneamente, turbinando sempre più insistentemente nella mia testa, soprattutto da quando ho iniziato a frequentare molto assiduamente la blogosfera, in particolare il mondo dei lit-blog. Un mondo davvero a parte, in cui giornalisti (ma più in generale tecnici del settore) e/o lettori di un certo spessore fanno vere recensioni, vere critiche con mezzi espressivi elaborati e curati. Io sono ancora ad uno stadio larvale, pur avendo tutta la buona volontà di migliorare.
E allora cosa fare? Dovrei evitare di mettermi alla prova, non scrivendo o non cercando di scrivere recensioni serie? No. A me piace scrivere, voglio migliorare, ho bisogno di parlare di tutto ciò che mi interessa / di tutto ciò che nella vita reale, alle persone reali, ossia quelle persone abituate a vivere bene nella realtà esteriore, nonché alla superficie delle cose (una buona fetta di popolazione che spesso mi ritrovo ad invidiare per il senso pratico che applicano in ogni campo) non interessa.

Qui ho la possibilità di rivolgermi ad un interlocutore immaginario che mi ascolti e che abbia la pazienza di recepire il mio (spesso delirante) sbobinamento di pensieri accumulati durante la visione di un film o la lettura di un libro. E allora perché non provare? Proviamoci eccome! Ma senza intenzioni seconde, senza voler essere tecnica, senza voler essere troppo seria. Questo si configurerà come un vero e proprio palcoscenico della mia interiorità. Certamente un palcoscenico di rappresentazioni programmate. Offrirò di me solo ciò che è innocuo, ciò che non dovrebbe ferirmi nel caso in cui venga criticato. E allora niente appellativi, niente recensioni, né intenzioni di recensioni.
Sono arrivata a questa epifania dopo tanto tempo e probabilmente alcuni di voi si chiederanno: "e che cambierà concretamente: non è lo stesso che facevi prima?". Dall'esterno potrebbe anche darsi, ma ciò che importa è che ora c'è un cambio di atteggiamento in me, un'attitudine diversa nei confronti di questa piattaforma che userò più spesso e volentieri, senza avere timori di sorta (niente alte aspettative = niente grandi responsabilità).

È con quest'intenzione che ho cambiato anche la grafica, ora molto scarna ed essenziale, incentrata solo ed unicamente sul testo. Non ci sono, come potete vedere, tante pubblicità né tentativi di affiliarmi a chissà quanti altri siti. Blog personale a tutti gli effetti, archivio della memoria.
In breve: chi avrà intenzione di sbirciare nella mia interiorità è il benvenuto. Pubblicherò, se ne ho voglia / se ci tengo particolarmente ad avere un riscontro, i post sul mio profilo Facebook, con la stessa intenzione con cui regalerei ad un amico un libro per "far sapere che ho pensato tal o tal cosa". Ed ho preso addirittura consapevolezza del fatto che tutti possano pensare: chemmefrega di ciò che pensi. Diritto legittimo! Basterà non entrare in questa pagina oppure entrare e farsi due risate a scapito della sottoscritta (perché, siamo sincer*, chi non ha mai fatto cose di questo genere?).
Spero vivamente che questo rapporto più sereno e spensierato col blog possa aiutarmi a sciogliermi nelle situazioni più disparate perché, da quando sono tornata dal mio Erasmus in Germania, tutto mi sembra così sottosopra e privo di appigli. Ho intenzione di prendere in mano le redini della situazione, dire finalmente IO senza aver paura. Partire da una realtà virtuale, ai miei occhi abbastanza innocua (per esperienza personale, anche se non è affatto così per molte altre persone) non mi sembra una cattiva idea.
Con rinnovate intenzioni vi saluto e vi dico con franchezza che non ho nulla da offrire se non i miei modesti pareri, i miei discutibili interessi ed infine le mie buone intenzioni.
A presto,
un'insonne e ostinata Flavague

(*) P.S.: Fotografia bellissima scattata da Gina Pane, dal titolo Situation idéale Terre-artiste-Ciel (1969).