sabato 27 aprile 2013

Niente proteste femministe, prego



Risalgo dagli inferi, voilà! (è tremendamente imbarazzante non sapere come iniziare un post, mi sento un po' sciocca a salutare normalmente). Stavolta però ricompaio con seri e precisi intenti di propaganda. Dovete sapere che è da molto tempo che avrei voluto proporre questa lettura, piacevole ma con riserbo, e non si sa bene come mi sia ritrovata a farlo di venerdì sera, stanca morta, alle 23. Roba da pazzi, direi, ma concedetemelo.

Qualche breve (sì, dico sempre così ma poi non lo è mai) riflessione su "Una stanza tutta per sé" (A room of one's own) ed i motivi per cui dovrebbe essere letto. Si tratta di un saggio, composto di 6 capitoli, che riassume due conferenze tenute a Cambridge da Virginia Woolf. Le venne chiesto di scrivere delle "Donne e il romanzo" (ci potrebbe essere richiesta più generica?). Premessa fondamentale per un qualsiasi lettore che non conosca l'autrice in questione è che la Woolf fu una donna brillante e stravagante (come tutti gli artisti che si rispettino), che si batté fra le altre cose per l'emancipazione femminile. Se vi aspettate però un saggio militante che esorti alla rivoluzione sessuale, nella sua maniera più estrema, allora siete completamente fuori strada. L'autrice è pacata, tremendamente pacata (contro ogni sua aspettativa!), nell'esplorazione delle condizioni della donna, attraverso i secoli letterari. La donna su cui punta l'attenzione però non è solo la donna "qualunque", bensì la donna intellettuale-artista. Una specie protetta, in parte più sensibile alle degradazioni ed alle umiliazioni che sono state inferte al suo genere.

Non so quale potrebbe essere la vostra reazione durante la lettura, ma la mia è stata di sconcerto totale perché mi aspettavo denuncia, toni polemici e presumibilmente molti dati storici. Tutt'altro. E devo dire che è stato decisamente meglio così. La Woolf si siede ad una scrivania e ci racconta le sue giornate mentre si documenta per queste due conferenze, ci riporta amichevolmente le sue sensazioni e le contraddizioni in cui è incappata. Dapprima i pensieri sono essenziali, scorrono piacevolmente attraverso i paesaggi e le righe, poi si fanno sempre più concatenati, pur mantenendo la propria individuale chiarezza. Non credo di aver mai detto così tante volte, durante una qualsiasi lettura: "E' vero, ha ragione, è così ovvio". L'autrice infatti ti rivela ciò che è apparentemente ovvio, ciò che dai per scontato, per mostrarti i risvolti più significativi della sua riflessione. E' un colloquio di ampio respiro, sincero ed aperto.
La Woolf non vuole dar contro a nessuno dei due sessi, mostra le debolezze di entrambi e cerca di metterli in comunicazione. Alla fine del saggio non si può che essere grati, tremendamente grati, per il fatto che abbia cercato di mascherare la sua posizione (ovviamente a favore delle donne, per poterne migliorare le condizioni); è proprio grazie a questa sua moderazione (apparente, di certo, perché io me la immagino rossa di rabbia mentre ci riporta alcune citazioni) che riusciamo a cogliere la gravità delle pressioni sociali sulla donna. Se avesse urlato, se avesse sputato veleno sul sesso maschile, avremmo perso la possibilità di riflettere da soli per arrivare, col suo stesso fervore, alle medesime conclusioni.

Il saggio non manca neppure del suo coinvolgente stile impressionistico (che i lettori più appassionati adorano), presente soprattutto nei primi due capitoli: scivoliamo attraverso le immagini, quasi sospesi fra realtà e sogno, percorriamo gli stessi sentieri, mangiamo al suo stesso tavolo ed alla fine rimaniamo sbalorditi perché non ci rendiamo conto, così come d'altronde nemmeno lei, di come siamo finiti lì, in quel secolo, in quel collegio (meno male che esistono ancora immaginazioni così fervide da togliere il fiato!).
A seguire invece un'avventura in biblioteca, attraverso i secoli ed i libroni polverosi che ci sistema sul banco, da cui traiamo informazioni riguardo le condizioni materiali della donna lungo i secoli, fra miseria ed oppressione, volontà di riscatto ed emarginazione. Ci viene poi presentata la "misteriosa" sorella di Shakespeare e facciamo la conoscenza di altre nobildonne, più o meno talentuose, più o meno conosciute. Ci mostra la rabbia degli uomini, la tensione fra i sessi, le pressioni psicologiche che soffocano la donna-artista, ancora più che la donna di tutti i giorni, perché sente addosso a sé non solo l'autorità del marito, ma soprattutto quella della società, degli intellettuali e del glorioso passato di cui sono portatori. Ci rivela infine lo stupore degli uomini che vedono, per la prima volta, le donne scrivere di poesia e filosofia, con un misto di tenerezza (degna di biasimo) e stupore: "Una donna che predica è come un cane che cammina sulle zampe posteriori; non lo fa bene, ma ti sorprende che riesca a farlo" (Samuel Johnson).

Vorrei dire ancora altro, potrei andare avanti all'infinito, ma mi sembra ingiusto togliere il piacere della lettura che si scopre ripercorrendo le fila che la Woolf ha tessuto con pazienza materna. È un saggio che vale davvero la pena di leggere perché fa riflettere, lascia immagini provocatorie e significative che aiutano a cogliere più lucidamente i rapporti scottanti fra due sessi ormai in perenne competizione, sia nella società che (ma forse dovremmo dire, soprattutto) nell'arte. A distanza di circa ottant'anni, risulta un'opera attualissima e tremendamente lungimirante. Alla fine si fa un respiro profondo e ci si chiede: "Cos'è cambiato? Ci siamo riuscite? Ci riusciremo mai?".

venerdì 12 aprile 2013

Gli strani effetti del sonno

Questo per me è un momento di estrema noia ed avendo a disposizione un foglio virtuale su cui scrivere (e che tutti potranno leggere! Non pensavo di poter esser tanto sicura di me), mi accingo a farlo. Premetto di non avere qualche bella idea da sfoggiare, qualcosa da consigliare (o pubblicizzare); il che contrasta nettamente con l'immagine che do di me, una sorta di venditrice ambulante- pubblicità occulta di tutto ciò che mi piace. Mi sto riferendo alla tendenza a parlare di libri che leggo, film che guardo e che mi piacciono o perché no, quando e come, chi, perché lo devi guardare (...) perdendomi in monologhi noiosissimi, per poi trovare lo sguardo del mio interlocutore fermo ad un "ma chi te l'ha chiesto, scusa?". Ma sorvoliamo.

Che scopo ha questo mio scrivere? Non lo so, e ve lo dico col cuore. La mia ossessione di voler scrivere di me per cercare di trovare chissà quale tesoro nascosto sedimentato nella mia interiorità (che poi dovrei già conoscere, almeno in parte, dato che ci vivo insieme da quasi vent'anni?) è preoccupante. Un'ossessione che praticamente la maggior parte degli scrittori dopo il Romanticismo (la febbre dell'interiorità, le confessioni, i diari personali; fossi vissuta a quel tempo avrei pompato la mia immagine all'inverosimile!) continua a mantenere perché, in fondo, cosa c'è di più interessante di noi stessi? Insomma, narcisismo allo stato puro, ecco ciò che accomuna una larga percentuale degli intellettuali. Ancora peggio se pensiamo che praticamente tutte le opere nascono da moti interiori e da fatti meramente autobiografici. Siamo ossessionati dall'idea di noi stessi, come se fossimo speciali ed avessimo sempre qualcosa da dire. 

Dovrei andare a dormire, ne sono fin troppo consapevole, ma mi sto divertendo molto a lasciarmi trasportare dai primi pensieri che mi capitano per la testa, incontrollati e sconnessi. Queste idee, così allo stato embrionale, in fondo sono il tesoro, la materia prima su cui gli scrittori lavorano, che limano con maniacale e materna attenzione, evitando il rischio di smussare troppo gli angoli o enfatizzare troppo alcuni aspetti. Poveri scrittori, sempre così prudenti, in perenne stato di chi va là, per non risultare sgradevoli o eccessivi ai propri occhi e soprattutto a quelli degli altri. Ho fatto attenzione, solo ultimamente e solo grazie alla Woolf (ma non dirò perché e come sto leggendo quel suo libro piuttosto che un altro, etc.), a quest'ultimo aspetto.

Gli artisti spesso sono sensibili (oppure montati e sbarellati, ma questa è un'altra faccenda) ed è forse per questo che si sentono ancora più spesso tagliati fuori dal mondo (dovrei fare un disclaimer lunghissimo dicendo che bisogna però fare attenzione ai periodi storici perché, ad esempio, in tempo di guerra molti artisti invece sono integratissimi e portano avanti battaglie ideologiche- ma fingiamo di saperlo già). Eppure da parte degli artisti c'è sempre un atteggiamento di cieca sottomissione, continua ricerca di piacere a qualcuno (un pubblico si direbbe, ma non necessariamente, a volte ambiscono solo al riconoscimento da parte di un gruppo limitato di persone per sentirsi "parte" di qualcosa). Più si sentono respinti o indifferenti alla società e più cercano di avvicinarsi, di dimostrare che valgono qualcosa. Hanno perso l'aureola, certo, ma pretendono almeno una corona di cartone (perdonate l'immagine, è orribile, ma ho il cervello in stand-by e non mi viene di meglio).

Poi però, mi dico, ci sono anche le epoche in cui l'integrazione non è più minimamente possibile ed allora, i poeti in particolare, si piangono addosso affidandosi al passato oppure reagiscono con un atteggiamento del tipo: "Se non posso essere come vogliono loro, allora sarò qualcos'altro" (e quasi sempre questo "altro" vuole essere una provocazione, perciò riprendono esattamente l'archetipo sociale per eccellenza e lo ribaltano). E' straordinario vedere come ogni atteggiamento umano - intendo presente in tutti i comuni mortali -sia però potenziato all'ennesima potenza dalla maggior parte degli artisti. E' un bisogno viscerale

Anche quando si trovano sul ciglio della strada e non hanno pane e sanno di aver fallito, da bravi idealisti quali sono ("meno male" che gli ideali fra gli artisti siano così forti ed intensi) non si mettono a cercare un'occupazione che possa garantire loro un pasto caldo, ma si lasciano morire come cani. Relitti di ideali e vergogna. Bella l'arte, un po' meno belli gli artisti (ma è forse proprio questo che li rende sovrumani?). Io, stupidamente, rimango sempre affascinata da quest'immagine di estrema decadenza che però ha un valore inestimabile: contiene un retroscena di rifiuti di compromessi in nome di ideali assoluti che la corporeità (in senso lato: la società) non può in nessun modo intaccare. Sovrumani.

venerdì 5 aprile 2013

Gavroche

M'ero ripromessa di essere regolare e costante nei miei impegni ma, come sempre, non sembro esserne in grado (non l'avrei mai detto?). Torno a quest'ora indecente per mettere in rete un testo tradotto che merita di essere considerato (ed ancora riconsiderato all'infinito, come tutti i classici). Grazie al capolavoro di Tom Hooper "Les misérables" (sarà un titolo con cui vi assillerò, ne son certa) , che ha origini ben più illustri, m'è tornato alla mano il magnifico mattone di Hugo. Ed uno dei passi più commoventi è la morte del piccolo Gavroche, il "pigmeo" che prese parte alle insurrezioni del 1832. Un gran bel periodo per gli idealisti. In rete non ci sono traduzioni in italiano, ed è un gran peccato, perciò sono molto contenta di poterlo presentare. Non aspettatevi granché però, è una traduzione amatoriale, spero solo di esser riuscita ad esprimere al massimo la metà (meglio dire un quarto?) dell'emozione che Hugo ha impiegato nella stesura. Tengo a precisare che le brevi strofe cantate da Gavroche sono molto musicali (ed in rima) solo in lingua originale, in italiano non riescono a mantenere le rime, con la sola eccezione della prima.

In ogni caso, buona lettura!

"A furia d'andare avanti, giunse al punto in cui il fumo della sparatoria diventava trasparente.I fucilieri della linea messi in fila, all'affuso dietro la sollevazione del lastricato, ed i fucilieri della periferia ammassati all'angolo della strada, improvvisamente si mostrarono a vicenda qualcosa che si agitava nel fumo. Nel momento in cui Gavroche stava privando un sergente, che giaceva al limite della barricata, delle sue cartucce, una pallottola colpì il cadavere.
- Diamine! disse Gavroche. Ecco che mi ammazzano i morti.

Una seconda pallottola fece brillare il selciato vicino a lui. Una terza fece capovolgere il suo cesto. Gavroche osservò e vide che proveniva dalla banlieue.
Si drizzò in piedi, i capelli al vento, le mani sulle anche, l'occhio fisso sulle guardie nazionali che tiravano, e si mise a cantare:

Siamo brutti a Nanterre,
E la colpa è di Voltaire,
Siamo bestie a Palaiseau,
E la colpa è di Rousseau.


Poi raccolse il suo cestino e ci rimise, senza perderne nemmeno una, tutte le cartucce che erano cadute e, avanzando verso la sparatoria, andò a svuotare un'altra giberna*. Lì, una quarta pallottola lo mancò ancora. Gavroche cantò:

Non sono notaio,
E la colpa è di Voltaire,
Sono un piccolo rapace,
E la colpa è di Rousseau.


Una quinta pallottola riuscì solo a tirar fuori da lui una terza strofa:

La gioia è il mio carattere,
E la colpa è di Voltaire,
La miseria è il mio corredo,
E la colpa è di Rousseau.


Andò avanti così per un po' di tempo.
Lo spettacolo era spaventoso ed affascinante al contempo. Gavroche, fucilato, provocava la scarica dei proiettili. Aveva l'aria di divertirsi molto. Era il passero che beccava i cacciatori. Rispondeva ad ogni scarica di proiettili con una strofa. Lo prendevano di mira in continuazione, lo mancavano sempre. Le guardie nazionali ed i soldati ridevano mentre lo rimettevano nel mirino. Si sdraiava, poi si rimetteva in piedi, si manteneva nell'ombra dello stipite di una porta, poi saltava fuori, scompariva, ricompariva, si salvava, tornava, rispondeva ai colpi con una pernacchia e nel frattempo rubava le cartucce, svuotava le giberne e riempiva il suo cesto. Gli insorti, affannati per l'ansia, lo seguivano con gli occhi. La barricata tremava; lui invece cantava. Non era un bambino, non era un uomo; era uno strano monello fatato. Si direbbe il nano invincibile della mischia. Le pallottole correvano dietro di lui, lui era più veloce di loro. Giocava a non so quale spaventoso nascondino con la morte; ogni volta che il volto della morte si avvicinava, il ragazzino gli dava un colpo. Tuttavia un proiettile, più mirato o più traditore degli altri, finì per raggiungere il bambino con l'argento vivo addosso. Gavroche barcollò, poi si accasciò. Tutta la barricata emise un grido; ma c'era del sangue di Antea [gigante mitologico che ritrovava la sua forza nella terra] nel pigmeo; per il ragazzino toccare il lastricato è come per il gigante toccare la terra; Gavroche era caduto solo per rialzarsi; rimase seduto, un lungo rivolo di sangue rigava il suo volto, alzò entrambe le braccia in aria, guardò nella direzione da cui era arrivato il colpo, e si mise a cantare:

Sono caduto per terra,
E la colpa è di Voltaire,
Il naso nel ruscello,
E la colpa è di...


Non riuscì mai a finirla. Una seconda pallottola dallo stesso fuciliere tagliò corto. Questa volta la faccia cadde al suolo e non si mosse più. La piccola grande anima s'era appena alzata in volo."

(Spero di tornare presto)