domenica 4 agosto 2013

Lo strano mondo di... - Parte prima





Questa è una di quelle afose giornate in cui respirare non sembra possibile. Non me la sento nemmeno di giustificare la mia incostanza nei confronti di questo blog perché tanto si sa che non cambierebbe nulla. Nonostante la mia pigrizia però mi sento in grado di impiegare in maniera utile parte del pomeriggio (quando studiare è impossibile si cerca sempre di trovare altro da fare, giusto per dire: "Eh dai, in fondo ho combinato qualcosa oggi pomeriggio, non ho mica dormito!"). Le mie letture procedono a stento, perché fra lavoro e studio e vita sociale non mi rimane molto tempo da impiegare per i miei passatempi. Sì, non sembra decisamente periodo di vacanze, però fingiamo che lo sia.

Ho accanto a me un libricino che ho iniziato a leggere storcendo un po' il nasoperché l'autore mi era quasi del tutto sconosciuto (lo conoscevo di nome così come si conosce di nome Umberto Eco, senza che per questo un lettore medio-basso si inoltri nella lettura di una sua opera) e le recensioni che avevo letto sulle sue opere erano molto contrastanti (il che mi ha fatto pensare: o quelli che hanno scritto recensioni così positive sono degli pseudo-intellettuali snob che lo difendono a spada tratta perché va di moda, oppure quelli che hanno scritto recensioni così distruttive erano pressoché illetterati e non c'hanno capito niente dalla prima riga). 
Stuzzicata la mia curiosità, mi sono messa a spulciare tutte le pubblicazioni dell'autore, ho dato una lettura veloce alle trame e sono incappata nella lettura perfetta: Questa è l'acqua di David Foster Wallace. E' una raccolta postuma (composta da Einaudi per l'anniversario della morte, in giovane età, dell'autore) di sei racconti dai titoli interessanti: Solomon Silverfish, Altra matematica, Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta, Crollo del '69, Ordine e fluttuazione a Northampton, Questa è l'acqua (da cui il titolo della raccolta). Racconti che ha pubblicato in riviste letterarie, discorsi ed altri inediti: tutte le peculiarità del suo stile sono raccolte in questa piccola perla.

Prima di leggere ogni libro, di solito, mi preparo all'universo dell'autore leggendo la quarta di copertina ed i saggi di apertura e chiusura del libro. Avrei voluto fotografare la mia espressione del viso mentre leggevo lo stralcio: "L'infinito. Questo l'argomento del libro di D.F.W. sulla matematica, la filosofia e la storia di un concetto vasto, bellissimo, astratto. Nel libro ci sono riferimenti alla dicotomia di Zenone e alla congettura di Goldbach, al principio di massimalità di Hausdorff". Mi dico: "Ma che cosa sono andata a prendere? Cos'è questa roba?". Sì, perché la filosofia sarà pure bella, ma aspettandomi una raccolta soft di racconti (non di certo una lettura da ombrellone, però nemmeno una dissertazione filosofica) mi è venuto un mezzo infarto.
Decido comunque di iniziare, a mio rischio e pericolo, questa lettura così strana e dibattuta. Nel giro di un'oretta finisco le cinquanta pagine del primo racconto e rimango a bocca aperta, attonita. Atmosfera da film poliziesco ma che nulla ha a che vedere col poliziesco (se non per qualche personaggio losco ed alcune situazioni che rientrano perfettamente nei cliché del genere), immagini fosche ed un solo enorme sentimento messo alla prova.
All'inizio il finale mi lascia l'amaro in bocca, perché, come poi scoprirò con le successive letture, con quest'autore non c'è mai un punto fermo. La conclusione per lui corrisponde ad un punto e virgola, il messaggio traspare ma non esaurisce la narrazione, è come se rimanesse qualcosa in sospeso che costringe il lettore a chiedersi, sempre nel primo racconto: "Ma quindi chi era quello che...?" (anche se la risposta è irrilevante, dato che la risoluzione dell'enigma è secondaria rispetto all'essenza del racconto).
 David Foster Wallace costringe il lettore a cogliere la verità che sta sul fondo, lasciando i dettagli secondari a se stessi (nella vita in fondo cos'è importante: capire la profondità di un sentimento o svelare un apparente mistero?). Poi mi dico: magari sono io che non ho capito il finale, non sarebbe la prima volta dato che mi distraggo sempre facilmente. Rileggo qualche stralcio, cercando una risposta e la risposta non c'è perché non ci deve essere.
Questa sensazione di sospensione è presente in tutti i suoi racconti ma non è un difetto, come invece avevo pensato all'inizio della raccolta (soffermandomi sui dettagli insignificanti che non avrebbero di certo cambiato la vita ai personaggi, né a me), quanto piuttosto un limite che costringe ad andare al di là della lettura. Costringe a vedere solo l'essenziale, a seguire la parabola dell'autore, chiara e netta.

Secondo fatto rilevante che è una garanzia, non un disclaimer (come nel caso precedente): i personaggi. Tutti bizzarri, particolari, unici nel loro genere. L'autore liquida spesso le descrizioni "essenziali" in poche pagine ma lo fa in una maniera talmente precisa ed incisiva che rimangono stampati in testa e non c'è modo per cancellarli.
Mi viene in mente la hippy sfiorita di Northampton accompagnata dal suo pretendente strabico e dall'amante finto intellettuale, o ancora il nipotino in cerca di se stesso in Altra matematica, o Solomon Silverfish e la sua livida compagna calva, Sophie Schoenweiss. Ogni personaggio è un pezzo dell'autore, come senz'altro accade per tutti i buoni autori, ma qui è evidente perché tutte le sue creature sono fragili, vulnerabili e dingliane (dal nome di Barry Dingle, personaggio di D.F.W.; "tendenza alla passività e alla muta paura acquisita a caro prezzo") quanto l'autore.
Si potrebbe dire che sono problematici, ma è un po' generico e forse anche inesatto. Essere problematico presuppone un problema ed una soluzione, ma venendo a mancare un problema ben definito (e di conseguenza la soluzione), il significato crolla. Sono personaggi umani e tormentati, con problemi ordinari e caratteri straordinari.
 La profondità con cui l'autore sonda le loro interiorità è sconvolgente. David Foster Wallace tratta questioni generalissime che toccano ognuno di noi: la malattia, la morte, l'amore, la ricerca di se stessi e della propria identità, la perdita dei valori (che assume una dimensione globale in Crollo del '69 con un ragazzo in grado di prevedere l'esatto contrario di ciò che avverrà). Infine la depressione, così amaramente dissezionata nel racconto che prediligo: Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta.
Fu proprio "La Cosa Brutta" a portare l'autore ad impiccarsi il 12 ottobre 2008. E' stato, purtroppo, questo suo forte sentire a dare linfa vitale alla sua produzione. Ma su quest'ultimo racconto vorrei spendere più parole la prossima volta, per ora mi limito a lasciare una citazione fra le tantissime che hanno lasciato il segno:

"Solomon ha giocato con la malattia della moglie in quel modo frenetico che ha di giocare con tutte le cose che lo toccano nel profondo. La prendeva in giro e la torturava. Accusava una Sophie radiografica di obesità dirompente. Le tirava l'orecchio reggendole la testa sopra il water. Si lamentava a gran voce dell'umidore salato che sentiva in bocca quando di notte le baciava le lacrime silenziose di un dolore silenzioso. Pasticciava con le sue parrucche. (...) Certe volte usava il vuoto lasciato da un seno per poggiare il mezzo melone della colazione a letto, il mattino. Sophie sa che a un estraneo può sembrare poco gentile. Essendo sua moglie da anni sa anche che Solomon riserva la gentilezza a chi secondo lui ne ha bisogno perché è messo male. Diventa gentile con qualcuno quando gli dispiace per lui. E a Sophie Solomon non farebbe mai il torto di dispiacersi per lei. (...) Ecco perché, pensò Sophie, il suo Solomon era una persona magica ora più che mai, e perché nel suo animo c'era tanto di quell'amore per lui da salvarla anche ora che era mortalmente malata. E' una cosa difficile da afferrare, il percome delle cose. Durante tutto questo brutto periodo Solomon ha fatto sentire e capire a Sophie che lei è la malata, non la malattia"

mercoledì 10 luglio 2013

Filosofia giapponese

La traslitterazione del titolo è Tugumi, reso in italiano con Tsugumi

Salve!
A distanza di anni luce dal mio ultimo post mi accingo a riprendere in mano la penna. L'enorme ritardo è dovuto alle adorabili sessioni d'esame che paralizzano la vita degli studenti con stress ed ansie inutili. In ogni caso, ora è il momento di riposare ed iniziare a cancellare i numerosi titoli che costellano la mia lista di libri da leggere (una lista infinita che vale già come romanzo breve).

Oltre ad essere stata una discreta monaca amanuense che, con invidiabile rigore, ha copiato titolo dopo titolo i libri che mi avrebbero tenuta occupata per anni, ho scoperto anche di essere una lettrice molto abitudinaria. Una pigrizia imperdonabile che limita la curiosità ai miei autori preferiti, quelli con cui sono riuscita a legare di più, precludendomi il rischio di trovare un libro che mi lasci indifferente o insoddisfatta. Fra gli autori preferiti e d'abitudine non potrei non citare Banana Yoshimoto. Ogni estate, con puntualità svizzera, leggo (e spesso rileggo) uno dei suoi libri. Quest'anno è toccato a Tsugumi, pubblicato nel 1989.

Premessa per i lettori curiosi: se volete colpi di scena e siete appassionati dell'avventura (e quindi anche abituati ad una certa complessità nelle trame) ignorate la Yoshimoto. La trama di ogni suo libro può essere riassunta in circa 3 righe, e non esagero. In Tsugumi, per esempio, la trama è talmente esile che, se anche saltaste due o tre capitoli centrali, potreste comunque dare un inizio ed una fine al libro. Ciò che compone le sue creazioni non è tanto il contenuto, quanto piuttosto la forma, lo stile e l'atmosfera che riesce a creare. Di cosa riempie le pagine allora? Essenzialmente di personaggi e situazioni che si fondono con le brillanti descrizioni del Giappone. Non mi riesco a spiegare con esattezza cosa renda i suoi libri così coerenti, ma posso dire con certezza che ci sia un tocco particolare nel suo modo di scrivere. Le immagini rimangono così vivide da mescolarsi coi propri ricordi personali, in una straordinaria atmosfera da sogno. Tutta la realtà che vede la Yoshimoto viene in qualche modo smussata: le emozioni forti che dovrebbero aggredire il lettore in realtà vengono percepite con sereno distacco, tipico di chi ha dietro di sé grandi certezze a cui far riferimento. Le separazioni (il tema della nostalgia è centrale in Tsugumi), addirittura la morte, vengono affrontate con filosofia. Tsugumi (alter ego della Yoshimoto), Maria Shirakawa e Kyoichi hanno consapevolezza dei cambiamenti che toccano la vita di ogni persona, ne capiscono la necessità ed interiorizzano tutte le esperienze. 

Non ci potrebbe essere filosofia più lontana da quella occidentale, o forse più lontana dalla mia. Durante la lettura mi sono spesso sentita infastidita dagli atteggiamenti di alcuni personaggi che mi sembravano troppo piatti ed accondiscendenti, come se tutto ciò che gli succedeva non facesse altro che scalfire la superficie di ciò che erano, senza andare più a fondo. Quando però l'immedesimazione è stata completa, era impossibile ignorare le loro ragioni ed adattarsi di conseguenza.
L'ideale di ogni personaggio della Yoshimoto è l'equilibrio, un nucleo fondante su cui fare affidamento. Questo può essere la famiglia (per il padre di Maria Shirakawa, per esempio), l'amore (per Tsugumi e Kyoichi) o la propria terra (la penisola di Izu per Maria e la madre). Ciò che muove la trama del libro è l'arrivo dei cambiamenti o, per meglio dire, degli sconvolgimenti. Cosa bisogna fare davanti alla minaccia di questo equilibrio? 
Ogni persona che conosco direbbe di reagire, i personaggi della Yoshimoto direbbero piuttosto di accettare con un compromesso: accettare l'evoluzione a condizione che si resti fedele al proprio passato. Ora che ho finito di scrivere questa frase mi rendo conto del paradosso che l'autrice ha sempre evitato accuratamente di mostrare. Per riuscire a capire a fondo la visione del mondo e della vita dei suoi personaggi è necessario avere dei punti di riferimento: fatalismo, accettazione/rassegnazione e pace interiore. La faccio più complicata di ciò che in realtà viene detto dalla Yoshimoto che invece è talmente spontanea e fluida da risultare quasi banale (ho detto quasi!).

Tutti i personaggi, già dall'inizio del libro, sono consapevoli di dover perdere qualcosa, non per scelta ma per necessità. Questa situazione li rende in partenza attori "passivi" della propria vita che sembra essere dominata da una forza superiore, alla quale non possono che ubbidire. Il loro margine di libertà riguarda semplicemente l'atteggiamento che devono tenere, non tanto le azioni che devono compiere di fronte al cambiamento. La forza di volontà è fondamentale ma non abbastanza per riuscire a capovolgere la situazione: Tsugumi, per esempio, è limitata dal proprio corpo debole e febbricitante, ma non pretende di cambiare la propria condizione (che è per l'appunto irreversibile). Potrebbe darsi per vinta e lasciarsi morire, ma in realtà lotta, pur sempre consapevole dei propri limiti. Nel momento in cui cerca di superarsi (ossia di reagire) rischia di rompere l'equilibrio già precario a cui si era sottomessa, causando più danni che benefici. 
L'unico modo per superare indenni le prove della vita quindi non è eludere il cambiamento irreversibile ma aggrapparsi a qualcosa di stabile, che rimanga immutato nel tempo. L'ancora di salvezza è costituita dai ricordi più forti ed intensi, dalle emozioni riscoperte con nostalgia. L'estate che descrive la Yoshimoto è l'ultima estate che avranno modo di vivere insieme, dovrebbe essere triste e lontana, non credete? Dovrebbe essere ma non lo è. Quell'ultima estate si offre piuttosto come il baluardo a cui tutti dovranno far riferimento nel momento in cui saranno distanti. La vivono tutti pienamente, senza lasciarsi sfuggire nemmeno un attimo, consapevoli dell'importanza che avrà nel loro futuro e del suo significato più profondo. Ecco la loro pace interiore.

"Se penso ai momenti tristi che ho passato lontano da voi, riesco a capire quanto importante sia avere qualcuno che ti stia vicino. Forse un giorno cambierò idea, e magari comincerò a trattarvi con durezza, ma anche quello farebbe parte della vita. Forse potrebbe anche sparire l'intesa che si è creata fra di noi. Ed è proprio per riuscire ad affrontare momenti come quelli che dobbiamo fare in modo di crearci il maggior numero possibile di bei ricordi".

martedì 7 maggio 2013

Il predominio dell'io

Ora tarda, come mio solito, ma momento necessario per la riflessione. Stavolta, a differenza di ciò che mi accade abitualmente, credo di avere qualcosa da dire o forse qualcosa da domandare. Una serie di questioni irrisolte ha invaso la mia testa nel momento in cui ho letto alcuni testi scritti da un'esordiente. Erano parole di grande impatto, metafore complesse ed indomabili, personalissime. Si riusciva a scorgere fra quelle righe l'urlo di un io gigantesco e tremendamente inquieto. La reazione da parte del "pubblico" virtuale è stata molto dura e negativa, forse a ragione o a torto, questo non si può spiegare bene.

Ed effettivamente sta proprio qui il problema. Nei testi di quella ragazza era (ed è tuttora) presente un'interiorità di considerevole portata. Come si può quindi giudicare un testo se quest'ultimo è il ritratto stesso di una persona? Come valutare il paesaggio interiore di quell'autrice che non ne ha limato i contorni né le parole? Come si può valutare oggettivamente la profondità che l'autore dà a quelle parole? Sarebbe impossibile separare il sangue dall'inchiostro.



Non so perché questo fatto irrilevante mi abbia turbata, ma ciò che è certo è che ho passato buona parte della giornata, fra un'occupazione e l'altra, a riflettere sul valore che l'impronta dell'autore ha sul suo lavoro. E' risaputo che tutte le opere d'arte abbiano uno spunto autobiografico (seppur minimo) ma non è questo che intendo con "impronta". Con impronta preferirei piuttosto indicare l'apporto emotivo -di profondità e di vissuto personale, non immaginato ed inconsistente come può essere un'ideale- e soprattutto verbale/stilistico che l'autore dà al suo lavoro.

Cercherò di spiegarmi meglio: un autore che scrive di un trauma e che l'ha vissuto avrà più profondità di un altro scrittore che invece è limitato ad immaginare la reazione di uno dei suoi personaggi, in relazione a quel trauma. Tuttavia il primo autore avrà meno lucidità (perché fin troppo coinvolto nelle scene) nello sviscerare il proprio vissuto, mentre il secondo sarà più lineare e coerente, di conseguenza più accessibile al pubblico: tutti i lettori si troverebbero infatti allo stesso livello dell'autore che "immagina" il trauma, ad un gradino più in basso rispetto all'autore che si racconta e che ha davvero vissuto il trauma.
L'io dell'artista quindi piuttosto che proporsi come punto di partenza sarebbe fine a se stesso, si contorcerebbe nel tentativo di rigenerarsi e capirsi attraverso la scrittura. Alla maggior parte dei lettori risulterebbe essere uno scrittore mediocre, perché non sa trasmettere nulla in maniera universale, e si presenta come uno scrigno chiuso col lucchetto, impossibile da capire. Mi trovo però completamente in disaccordo con questa "maggior parte" perché credo che la scrittura, intesa in questo senso come catarsi, sia una delle forme d'arti più nobili. Ma il pubblico? Ma i lettori? Ma il valore universale delle parole?

Non capisco. Il contrasto pubblico-autore non può non essere presente perché le opere devono essere fruibili in qualche modo, l'universalità è sacrosanto diritto e dovere della letteratura. Ma chi pensa all'io dell'autore? Ad un io che non riesce a spiegarsi in parole semplici e lineari, come la maggior parte dei buoni autori, perché troppo complesso - non certamente un "io" colto e di facile comprensione. L'esordiente in questione dovrebbe cambiare il proprio modo di scrivere, dovrebbe censurare le proprie metafore disordinate per risultare accessibile? Dovrebbe scrivere usando le virgole ed i punti, rinunciando al flusso di coscienza che invece è un facile trucco da bambini? Potrei andare avanti all'infinito facendo domande retoriche e congetture, ma il succo è sempre lo stesso. Da una sciocchezza simile sono arrivata a dubitare dell'essenza stessa delle parole, dell'impatto e del significato che hanno per l'artefice e per i suoi lettori.

Ci deve necessariamente essere un limite nella comunicazione che permetta la trasmissione del messaggio. L'autore scrive partendo da sé, di certo, ma dovrà allargare la visuale per includere le emozioni ed i pensieri di molti altri, altrimenti sarebbe incompreso e "mediocre". Lo sviluppo dell'idea personale dell'autore ad un certo punto dovrà essere frenato, o quanto meno tenuto sotto rigido controllo, affinché non abbia il predominio su tutta la pagina. Il lettore ne rimarrebbe escluso, guarderebbe le parole, stampate nero su bianco, come una persona che si trova ad avere a che fare con tavole antiche scritte in sanscrito. Si sentirebbe tagliato fuori dal mondo interiore dell'autore, forse ne rimarrebbe deluso o persino arrabbiato. Ma qual'è questo limite e quanto è necessario? Che valore dovrebbero avere le parole? Per il pubblico o per l'autore? L'autore dovrebbe frenare la propria urgenza interiore? A scapito di se stesso o del pubblico, in sostanza.

sabato 4 maggio 2013

Chi semina vento raccoglie tempesta

Non vorrei disturbare ma mi tocca. Mi cimento nell'arte della critica (moderatissima e ridicolmente dilettantesca) pur consapevole del fatto che non ne sarò mai capace. Perché? Semplicemente perché elogio ciò che ho apprezzato e non scrivo molto volentieri di ciò che mi ha lasciato indifferente. Che razza di critica sarei? Non lo sarei di certo. Ma proviamoci. Premetto di essermi avvicinata a questo film con l'ingiusto pregiudizio del valore del cinema indipendente. E da buon film indipendente presenta una tematica sempre difficile o, per meglio dire, controversa.


Di cosa si tratta? E ora parliamo di Kevin tratta di amore ed odio, maternità e sacrificio, psicologia e violenza. Sembra semplice ma in realtà non lo è, perché è impossibile riuscire a scorgere bene i limiti di ogni componente. Il film si propone come autoanalisi da parte di una madre che ha subìto ed indirettamente causato una tragedia immane, compiuta dal figlio sedicenne. Si guarda allo specchio e si chiede: In cosa ho sbagliato?. Lo stesso fa il carnefice nel momento in cui gli viene chiesto il motivo della violenza: Cos'è andato storto? Perché ciò che ho fatto sembra non aver più ragion d'essere? ("Credevo di saperlo, ora non ne sono più sicuro"). Ma la riflessione del ragazzo è breve, troppo breve ed allora tutto ciò che rimane è un senso di profonda angoscia nel pubblico inorridito.

Incapacità di credere che da piccole vicende famigliari, da egoistici risentimenti possa nascere un odio così profondo e totalizzante.Angoscia ben radicata, dall'inizio alla fine del film che si propone come una ricostruzione fitta di ricordi, simboli e colori. Il rosso domina. La sensazione che si prova è di sgomento: l'odio lascia tracce dietro di sé ma nessuna ragione valida. Il confronto riguarda in maniera sostanziale solo due personaggi, la madre ed il figlio, tutti gli altri sono solo comparse e figure secondarie nel teatro delle loro azioni. Molte recensioni propendono per il punto di vista della madre che, di certo, viene continuamente messa a durissima prova da parte del figlio, dal suo atteggiamento restio ad ogni tipo di comunicazione. Il fulcro però è l'odio, la mancanza, ciò che non viene fatto, ciò che non viene detto. A partire quasi da metà del film ci si rende conto che non ci sia piena colpevolezza da nessuna delle due parti, è come se entrambi fossero dominati da una sostanza impalpabile, più triste ed inesorabile, che li porta ad agire e non agire. Lo spettatore non riesce a prendere una posizione razionale e ben argomentata, perché il male nasce proprio dallo scontro di forze opposte che non si riescono a legare, il male è causa e conseguenza al contempo.

Forse anche per questo le scene risultano essere circolari: il regista le giostra in modo tale da farle tornare sempre su se stesse, riprendendo un passaggio e completandolo in maniera sempre meno superficiale. La sensazione di scavo accresce la tensione emotiva, la volontà di capire, di scoprire cos'è successo ma soprattutto perché. Il cosa ed il come ci vengono rivelati ma un vero, onesto "perché" non viene espresso perché l'astio non ha motivi lucidi ed inconfutabili.

L'odio si trascina dietro l'astio ed il rancore, passato attraverso il cordone ombelicale, nutrito con l'orgoglio di due persone sole, tremendamente sole nel proprio conflitto. Un dover amare, a tratti forse un sincero "voler" amare, che non riuscirà mai a colmare il vuoto dell'amore sincero e soprattutto spontaneo. La madre che vorrebbe amare e lasciarsi amare dal figlio, il figlio che vorrebbe essere ricompensato di tutto ciò che gli è mancato e che vorrebbe poi ridare in maniera disinteressata, forse. Ma non rimane nulla di tutto ciò, solo indifferenza ed astio manifesto. Nessuno dei due si concede, nessuno è abbastanza debole da permettersi di perdere di fronte all'altro.

Questo filo rosso (colore dominante attraverso diversi elementi) ed estremamente complesso non è mai espresso, ma visivamente rappresentato. Le scene rimangono impresse, sicuramente in maniera più efficace delle parole che tendono a banalizzare. Viene tratteggiata, con tinte più o meno fosche, la cecità dell'odio che finisce per dimenticare le proprie ragioni, ma che spiattella le proprie origini, quotidiane ed apparentemente insignificanti.

Non vi resta che prendere un respiro profondo: immergete la testa e guardate nel passato insieme alla madre, percepite la sua ostinazione nel continuare la propria vita in maniera indipendente, provate il suo senso di colpa nel momento in cui scopre che il figlio sa ben leggere dietro la sua indifferenza, e che per questo si ribella in maniera istintiva (anche se a tratti l'atteggiamento del ragazzino è fin troppo enfatizzato, tanto da far perdere credibilità al personaggio) ed inizia ad odiare. Una vendetta che la lascerà priva di forze e di speranze. Le radici del male, certo, ma anche l'impossibilità di mostrarlo a tuttotondo. Un vero e proprio pugno nello stomaco, fra suspense ed incredulità. Non è di certo un film leggero né d'evasione ma merita assolutamente uno sguardo attento ed indagatore; inoltre i continui richiami (attraverso simboli e colori) fra una scena e l'altra aiutano a mantenere viva l'attenzione del pubblico, che presumibilmente andrebbe scemando se l'intento autoanalitico del film fosse stato reso con una struttura lineare (decisamente noiosa). E' un film davvero significativo.

sabato 27 aprile 2013

Niente proteste femministe, prego



Risalgo dagli inferi, voilà! (è tremendamente imbarazzante non sapere come iniziare un post, mi sento un po' sciocca a salutare normalmente). Stavolta però ricompaio con seri e precisi intenti di propaganda. Dovete sapere che è da molto tempo che avrei voluto proporre questa lettura, piacevole ma con riserbo, e non si sa bene come mi sia ritrovata a farlo di venerdì sera, stanca morta, alle 23. Roba da pazzi, direi, ma concedetemelo.

Qualche breve (sì, dico sempre così ma poi non lo è mai) riflessione su "Una stanza tutta per sé" (A room of one's own) ed i motivi per cui dovrebbe essere letto. Si tratta di un saggio, composto di 6 capitoli, che riassume due conferenze tenute a Cambridge da Virginia Woolf. Le venne chiesto di scrivere delle "Donne e il romanzo" (ci potrebbe essere richiesta più generica?). Premessa fondamentale per un qualsiasi lettore che non conosca l'autrice in questione è che la Woolf fu una donna brillante e stravagante (come tutti gli artisti che si rispettino), che si batté fra le altre cose per l'emancipazione femminile. Se vi aspettate però un saggio militante che esorti alla rivoluzione sessuale, nella sua maniera più estrema, allora siete completamente fuori strada. L'autrice è pacata, tremendamente pacata (contro ogni sua aspettativa!), nell'esplorazione delle condizioni della donna, attraverso i secoli letterari. La donna su cui punta l'attenzione però non è solo la donna "qualunque", bensì la donna intellettuale-artista. Una specie protetta, in parte più sensibile alle degradazioni ed alle umiliazioni che sono state inferte al suo genere.

Non so quale potrebbe essere la vostra reazione durante la lettura, ma la mia è stata di sconcerto totale perché mi aspettavo denuncia, toni polemici e presumibilmente molti dati storici. Tutt'altro. E devo dire che è stato decisamente meglio così. La Woolf si siede ad una scrivania e ci racconta le sue giornate mentre si documenta per queste due conferenze, ci riporta amichevolmente le sue sensazioni e le contraddizioni in cui è incappata. Dapprima i pensieri sono essenziali, scorrono piacevolmente attraverso i paesaggi e le righe, poi si fanno sempre più concatenati, pur mantenendo la propria individuale chiarezza. Non credo di aver mai detto così tante volte, durante una qualsiasi lettura: "E' vero, ha ragione, è così ovvio". L'autrice infatti ti rivela ciò che è apparentemente ovvio, ciò che dai per scontato, per mostrarti i risvolti più significativi della sua riflessione. E' un colloquio di ampio respiro, sincero ed aperto.
La Woolf non vuole dar contro a nessuno dei due sessi, mostra le debolezze di entrambi e cerca di metterli in comunicazione. Alla fine del saggio non si può che essere grati, tremendamente grati, per il fatto che abbia cercato di mascherare la sua posizione (ovviamente a favore delle donne, per poterne migliorare le condizioni); è proprio grazie a questa sua moderazione (apparente, di certo, perché io me la immagino rossa di rabbia mentre ci riporta alcune citazioni) che riusciamo a cogliere la gravità delle pressioni sociali sulla donna. Se avesse urlato, se avesse sputato veleno sul sesso maschile, avremmo perso la possibilità di riflettere da soli per arrivare, col suo stesso fervore, alle medesime conclusioni.

Il saggio non manca neppure del suo coinvolgente stile impressionistico (che i lettori più appassionati adorano), presente soprattutto nei primi due capitoli: scivoliamo attraverso le immagini, quasi sospesi fra realtà e sogno, percorriamo gli stessi sentieri, mangiamo al suo stesso tavolo ed alla fine rimaniamo sbalorditi perché non ci rendiamo conto, così come d'altronde nemmeno lei, di come siamo finiti lì, in quel secolo, in quel collegio (meno male che esistono ancora immaginazioni così fervide da togliere il fiato!).
A seguire invece un'avventura in biblioteca, attraverso i secoli ed i libroni polverosi che ci sistema sul banco, da cui traiamo informazioni riguardo le condizioni materiali della donna lungo i secoli, fra miseria ed oppressione, volontà di riscatto ed emarginazione. Ci viene poi presentata la "misteriosa" sorella di Shakespeare e facciamo la conoscenza di altre nobildonne, più o meno talentuose, più o meno conosciute. Ci mostra la rabbia degli uomini, la tensione fra i sessi, le pressioni psicologiche che soffocano la donna-artista, ancora più che la donna di tutti i giorni, perché sente addosso a sé non solo l'autorità del marito, ma soprattutto quella della società, degli intellettuali e del glorioso passato di cui sono portatori. Ci rivela infine lo stupore degli uomini che vedono, per la prima volta, le donne scrivere di poesia e filosofia, con un misto di tenerezza (degna di biasimo) e stupore: "Una donna che predica è come un cane che cammina sulle zampe posteriori; non lo fa bene, ma ti sorprende che riesca a farlo" (Samuel Johnson).

Vorrei dire ancora altro, potrei andare avanti all'infinito, ma mi sembra ingiusto togliere il piacere della lettura che si scopre ripercorrendo le fila che la Woolf ha tessuto con pazienza materna. È un saggio che vale davvero la pena di leggere perché fa riflettere, lascia immagini provocatorie e significative che aiutano a cogliere più lucidamente i rapporti scottanti fra due sessi ormai in perenne competizione, sia nella società che (ma forse dovremmo dire, soprattutto) nell'arte. A distanza di circa ottant'anni, risulta un'opera attualissima e tremendamente lungimirante. Alla fine si fa un respiro profondo e ci si chiede: "Cos'è cambiato? Ci siamo riuscite? Ci riusciremo mai?".

venerdì 12 aprile 2013

Gli strani effetti del sonno

Questo per me è un momento di estrema noia ed avendo a disposizione un foglio virtuale su cui scrivere (e che tutti potranno leggere! Non pensavo di poter esser tanto sicura di me), mi accingo a farlo. Premetto di non avere qualche bella idea da sfoggiare, qualcosa da consigliare (o pubblicizzare); il che contrasta nettamente con l'immagine che do di me, una sorta di venditrice ambulante- pubblicità occulta di tutto ciò che mi piace. Mi sto riferendo alla tendenza a parlare di libri che leggo, film che guardo e che mi piacciono o perché no, quando e come, chi, perché lo devi guardare (...) perdendomi in monologhi noiosissimi, per poi trovare lo sguardo del mio interlocutore fermo ad un "ma chi te l'ha chiesto, scusa?". Ma sorvoliamo.

Che scopo ha questo mio scrivere? Non lo so, e ve lo dico col cuore. La mia ossessione di voler scrivere di me per cercare di trovare chissà quale tesoro nascosto sedimentato nella mia interiorità (che poi dovrei già conoscere, almeno in parte, dato che ci vivo insieme da quasi vent'anni?) è preoccupante. Un'ossessione che praticamente la maggior parte degli scrittori dopo il Romanticismo (la febbre dell'interiorità, le confessioni, i diari personali; fossi vissuta a quel tempo avrei pompato la mia immagine all'inverosimile!) continua a mantenere perché, in fondo, cosa c'è di più interessante di noi stessi? Insomma, narcisismo allo stato puro, ecco ciò che accomuna una larga percentuale degli intellettuali. Ancora peggio se pensiamo che praticamente tutte le opere nascono da moti interiori e da fatti meramente autobiografici. Siamo ossessionati dall'idea di noi stessi, come se fossimo speciali ed avessimo sempre qualcosa da dire. 

Dovrei andare a dormire, ne sono fin troppo consapevole, ma mi sto divertendo molto a lasciarmi trasportare dai primi pensieri che mi capitano per la testa, incontrollati e sconnessi. Queste idee, così allo stato embrionale, in fondo sono il tesoro, la materia prima su cui gli scrittori lavorano, che limano con maniacale e materna attenzione, evitando il rischio di smussare troppo gli angoli o enfatizzare troppo alcuni aspetti. Poveri scrittori, sempre così prudenti, in perenne stato di chi va là, per non risultare sgradevoli o eccessivi ai propri occhi e soprattutto a quelli degli altri. Ho fatto attenzione, solo ultimamente e solo grazie alla Woolf (ma non dirò perché e come sto leggendo quel suo libro piuttosto che un altro, etc.), a quest'ultimo aspetto.

Gli artisti spesso sono sensibili (oppure montati e sbarellati, ma questa è un'altra faccenda) ed è forse per questo che si sentono ancora più spesso tagliati fuori dal mondo (dovrei fare un disclaimer lunghissimo dicendo che bisogna però fare attenzione ai periodi storici perché, ad esempio, in tempo di guerra molti artisti invece sono integratissimi e portano avanti battaglie ideologiche- ma fingiamo di saperlo già). Eppure da parte degli artisti c'è sempre un atteggiamento di cieca sottomissione, continua ricerca di piacere a qualcuno (un pubblico si direbbe, ma non necessariamente, a volte ambiscono solo al riconoscimento da parte di un gruppo limitato di persone per sentirsi "parte" di qualcosa). Più si sentono respinti o indifferenti alla società e più cercano di avvicinarsi, di dimostrare che valgono qualcosa. Hanno perso l'aureola, certo, ma pretendono almeno una corona di cartone (perdonate l'immagine, è orribile, ma ho il cervello in stand-by e non mi viene di meglio).

Poi però, mi dico, ci sono anche le epoche in cui l'integrazione non è più minimamente possibile ed allora, i poeti in particolare, si piangono addosso affidandosi al passato oppure reagiscono con un atteggiamento del tipo: "Se non posso essere come vogliono loro, allora sarò qualcos'altro" (e quasi sempre questo "altro" vuole essere una provocazione, perciò riprendono esattamente l'archetipo sociale per eccellenza e lo ribaltano). E' straordinario vedere come ogni atteggiamento umano - intendo presente in tutti i comuni mortali -sia però potenziato all'ennesima potenza dalla maggior parte degli artisti. E' un bisogno viscerale

Anche quando si trovano sul ciglio della strada e non hanno pane e sanno di aver fallito, da bravi idealisti quali sono ("meno male" che gli ideali fra gli artisti siano così forti ed intensi) non si mettono a cercare un'occupazione che possa garantire loro un pasto caldo, ma si lasciano morire come cani. Relitti di ideali e vergogna. Bella l'arte, un po' meno belli gli artisti (ma è forse proprio questo che li rende sovrumani?). Io, stupidamente, rimango sempre affascinata da quest'immagine di estrema decadenza che però ha un valore inestimabile: contiene un retroscena di rifiuti di compromessi in nome di ideali assoluti che la corporeità (in senso lato: la società) non può in nessun modo intaccare. Sovrumani.

venerdì 5 aprile 2013

Gavroche

M'ero ripromessa di essere regolare e costante nei miei impegni ma, come sempre, non sembro esserne in grado (non l'avrei mai detto?). Torno a quest'ora indecente per mettere in rete un testo tradotto che merita di essere considerato (ed ancora riconsiderato all'infinito, come tutti i classici). Grazie al capolavoro di Tom Hooper "Les misérables" (sarà un titolo con cui vi assillerò, ne son certa) , che ha origini ben più illustri, m'è tornato alla mano il magnifico mattone di Hugo. Ed uno dei passi più commoventi è la morte del piccolo Gavroche, il "pigmeo" che prese parte alle insurrezioni del 1832. Un gran bel periodo per gli idealisti. In rete non ci sono traduzioni in italiano, ed è un gran peccato, perciò sono molto contenta di poterlo presentare. Non aspettatevi granché però, è una traduzione amatoriale, spero solo di esser riuscita ad esprimere al massimo la metà (meglio dire un quarto?) dell'emozione che Hugo ha impiegato nella stesura. Tengo a precisare che le brevi strofe cantate da Gavroche sono molto musicali (ed in rima) solo in lingua originale, in italiano non riescono a mantenere le rime, con la sola eccezione della prima.

In ogni caso, buona lettura!

"A furia d'andare avanti, giunse al punto in cui il fumo della sparatoria diventava trasparente.I fucilieri della linea messi in fila, all'affuso dietro la sollevazione del lastricato, ed i fucilieri della periferia ammassati all'angolo della strada, improvvisamente si mostrarono a vicenda qualcosa che si agitava nel fumo. Nel momento in cui Gavroche stava privando un sergente, che giaceva al limite della barricata, delle sue cartucce, una pallottola colpì il cadavere.
- Diamine! disse Gavroche. Ecco che mi ammazzano i morti.

Una seconda pallottola fece brillare il selciato vicino a lui. Una terza fece capovolgere il suo cesto. Gavroche osservò e vide che proveniva dalla banlieue.
Si drizzò in piedi, i capelli al vento, le mani sulle anche, l'occhio fisso sulle guardie nazionali che tiravano, e si mise a cantare:

Siamo brutti a Nanterre,
E la colpa è di Voltaire,
Siamo bestie a Palaiseau,
E la colpa è di Rousseau.


Poi raccolse il suo cestino e ci rimise, senza perderne nemmeno una, tutte le cartucce che erano cadute e, avanzando verso la sparatoria, andò a svuotare un'altra giberna*. Lì, una quarta pallottola lo mancò ancora. Gavroche cantò:

Non sono notaio,
E la colpa è di Voltaire,
Sono un piccolo rapace,
E la colpa è di Rousseau.


Una quinta pallottola riuscì solo a tirar fuori da lui una terza strofa:

La gioia è il mio carattere,
E la colpa è di Voltaire,
La miseria è il mio corredo,
E la colpa è di Rousseau.


Andò avanti così per un po' di tempo.
Lo spettacolo era spaventoso ed affascinante al contempo. Gavroche, fucilato, provocava la scarica dei proiettili. Aveva l'aria di divertirsi molto. Era il passero che beccava i cacciatori. Rispondeva ad ogni scarica di proiettili con una strofa. Lo prendevano di mira in continuazione, lo mancavano sempre. Le guardie nazionali ed i soldati ridevano mentre lo rimettevano nel mirino. Si sdraiava, poi si rimetteva in piedi, si manteneva nell'ombra dello stipite di una porta, poi saltava fuori, scompariva, ricompariva, si salvava, tornava, rispondeva ai colpi con una pernacchia e nel frattempo rubava le cartucce, svuotava le giberne e riempiva il suo cesto. Gli insorti, affannati per l'ansia, lo seguivano con gli occhi. La barricata tremava; lui invece cantava. Non era un bambino, non era un uomo; era uno strano monello fatato. Si direbbe il nano invincibile della mischia. Le pallottole correvano dietro di lui, lui era più veloce di loro. Giocava a non so quale spaventoso nascondino con la morte; ogni volta che il volto della morte si avvicinava, il ragazzino gli dava un colpo. Tuttavia un proiettile, più mirato o più traditore degli altri, finì per raggiungere il bambino con l'argento vivo addosso. Gavroche barcollò, poi si accasciò. Tutta la barricata emise un grido; ma c'era del sangue di Antea [gigante mitologico che ritrovava la sua forza nella terra] nel pigmeo; per il ragazzino toccare il lastricato è come per il gigante toccare la terra; Gavroche era caduto solo per rialzarsi; rimase seduto, un lungo rivolo di sangue rigava il suo volto, alzò entrambe le braccia in aria, guardò nella direzione da cui era arrivato il colpo, e si mise a cantare:

Sono caduto per terra,
E la colpa è di Voltaire,
Il naso nel ruscello,
E la colpa è di...


Non riuscì mai a finirla. Una seconda pallottola dallo stesso fuciliere tagliò corto. Questa volta la faccia cadde al suolo e non si mosse più. La piccola grande anima s'era appena alzata in volo."

(Spero di tornare presto)

giovedì 21 marzo 2013

L'approccio sbagliato

Buona sera (o quasi buona notte).
Dopo questa bellissima giornata primaverile m'è tornato in mente (come un'illuminazione dall'alto, amen) un articolo che avevo letto tempo fa e che mi aveva "aperto un mondo". L'articolo è questo, scritto da Giacomo Sartori, di cui non ho letto praticamente nulla se non brevi articoli sul blog collettivo "Nazione Indiana". Già il titolo dovrebbe incuriosire -o almeno con me aveva funzionato- perché esordisce in maniera provocatoria con: "La stupidità degli scrittori". Temo che molti non abbiano voglia di proseguire nella lettura, dopo avervi propinato un articolo così leggero e così corto (sento già le vostre dita che guidano la freccetta del mouse verso l'uscita d'emergenza). Ma insisto nel mio essere fastidiosa e riassumo all'osso la sua tesi.

Secondo Sartori, i migliori scrittori hanno intelligenza mediocre ed originalità che, non indifferente, è frutto dei loro difetti di carattere; prosegue dicendo che se fossero tutti intelligentissimi e perfetti, si ridurrebbero a scrivere speculazioni filosofiche ed incomprensibili, facendo solo vanto della propria erudizione. Come potrei non essere d'accordo? Essere scrittore non significa mostrare quanto si sappia di una disciplina piuttosto che di un'altra perché di questo, al lettore medio, non frega proprio nulla (a meno che non si tratti di ricerche, ed allora sì che ci servono i sapientoni).

Ma sorvoliamo su questi aspetti che, seppur interessanti, sono marginali rispetto alla riflessione che vorrei fare. A metà dell'articolo, il nostro Sartori dichiara che: "Quello che viene impropriamente chiamato genio è in realtà il pedissequo frutto di uno squilibrio, un riuscito dosaggio di doti e tare", e riporta (con mio grandissimo piacere) alcuni grandi autori affiancati da una caratteristica o un difetto che li rendano davvero tipici, davvero loro. Non dice di Dante che è stato il fondatore della letteratura italiana e che senza di lui non avremmo certamente le Lettere, così come le conosciamo oggi (ed io sono davvero stanca di avere definizioni simili in tutte le antologie che mi propinano, con tutto il rispetto per il signor Alighieri) perché non direbbe nulla di concreto. Dice piuttosto che è: "un bigotto pedantone con il dente avvelenato". Ed allora sorrido. Non perché Dante non mi vada particolarmente a genio (sì), ma perché finalmente me lo riesco ad immaginare come persona, non come entità astratta (vi invito a leggere anche gli altri scrittori, tutti abbozzati in maniera ironica e piacevole).
Comunque, eccoci all'input. L'ammirazione che ho provato per Sartori nelle scarse righe (d'altronde non poteva mica scrivere la Divina Commedia!) che ha dedicato alle personalità degli scrittori, in realtà s'è rivelata gratitudine. Perché, per la prima volta, dopo anni di antologie noiosissime che reiteravano definizioni pompose di elogio/critica, qualcuno mi parla di un autore in maniera umana, mi fa capire che dietro a quelle opere (che possono piacere o non piacere, appassionare o annoiare) c'è un uomo, con una personalità ben definita e magari alcune peculiarità. In sostanza: mi fa conoscere lo scrittore. Ciò che le antologie non fanno (e spesso nemmeno i professori) è stabilire un contatto reale con lo scrittore, con la sua personalità. Io mi appassiono in maniera viscerale di uno scrittore quando so, per esempio, che ha fatto esperienze che io stessa vorrei fare, quando s'è distinto per irascibilità o sensibilità. Parto con pregiudizi (positivi, ma pur sempre tali) e riscopro con maggiore interesse la sua letteratura, la sua poesia. Lo ricollego alle opere, lo vedo scrivere, arrabbiarsi e pubblicarsi da anonimo, nascondersi dietro circoli letterari, ubriacarsi, soffrire per amore, fare viaggi da vagabondo. Ossia, lo vedo rivivere nelle sue opere, in ciò che ci ha lasciato.

Si capisce allora -seguendo "l'approccio sbagliato" delle antologie- perché le persone odino studiare letteratura e le vite degli autori (che noia, perché mi devo imparare ogni singolo viaggio, ogni rivista in cui è stato pubblicato?). Ciò che manca è la prospettiva per capire l'autore, qualche aneddoto, qualche curiosità (meglio se una "tara") che ce lo faccia avere in simpatia o antipatia, che permetta un legame fra persona e persona, non studente frustrato e persona X che ha scritto l'opera Y. Al di là dell'arte c'è sempre uno scrittore, scultore, pittore, ma prima di tutto una persona. Non deve quindi essere un rapporto asettico, come risulta nella maggior parte dei casi. Ciò che dimentichiamo (in generale, ma io punto il dito sempre sui critici, fatemi ricredere, per me è un'antipatia davvero sentita) è che quei nomi scritti sulle copertine dei libri non sono solo lettere ma rappresentano un'identità, una persona che in un lontano 1500 potevi incontrare per strada, in campagna, o nella corte ferrarese, e così via.

Le biografie storiche (ma anche romanzate) degli autori sono un ottimo modo, a mio parere, di stabilire un contatto coi "barbosi" scrittori che troviamo sulle antologie, insipidi ed insignificanti. Leggendone magari gli amori, le avventure, le delusioni, le pazzie (e per gli scrittori ce ne sono tantissime!) ci sentiremo loro compagni e magari anche amici, non anonimi studenti succubi dei loro versi e delle loro trame infinite. Cammineremo di pari passo con loro, parleremo, berremo un bicchiere di vino al loro tavolo, li vedremo inveire e lottare. Ecco ciò che io intendo quando dico a qualcuno che devo ancora "entrare nell'ottica" dello scrittore (risultando magari stupida, ma ci sono tantissime occasioni in cui lo sembro) per poterlo giudicare. Devo semplicemente conoscerlo. E forse dovremmo tutti.

domenica 17 marzo 2013

Mi presento

Salve.
Questo dovrebbe essere un post importante. Tanto vale, so a malapena cosa scrivere. L'ideale sarebbe dire chi sono, per chi non mi conoscesse. Allora dico che mi chiamo Flavia, (Flavague nelle poche realtà virtuali che frequento), 19 anni, studentessa di Lingue e Letterature straniere moderne. Parlare di me in questi termini sarebbe come identificare una nicchia di persone che, come me, frequentano questa facoltà, hanno i miei stessi anni e si chiamano Flavia. Sarebbe a dire: niente. Ci saranno almeno 5000 persone che corrispondono a questi criteri, ed anche il numero è poco significativo (decisamente improvvisato).

Parliamo quindi di qualcosa di più serio, giusto per riuscire a capire perché diavolo sto scrivendo qui, su una piattaforma virtuale che oso utilizzare. Sono una persona molto curiosa, dote utile, non eccessivamente creativa (capacità che mi sarebbe decisamente molto più utile) e troppo seria. Ed è proprio questo il problema: la serietà a lungo andare finisce per fossilizzarsi e diventare un groviglio di noia e -no- io non voglio affatto diventare una persona noiosa.

 L'autoironia mi appartiene, ma in una maniera decisamente distruttiva (pensate ad un monologo fra due parti che si danno contro, che si insultano con sorriso sghembo ed amaro, mentre il pubblico che le guarda ride di gusto, credendo fermamente che quel cabaret sia solo una messinscena, che gli insulti non siano veri: no, mi spiace, così non è). Ed ora, in questo momento di blocco creativo (l'incubo del foglio bianco di ogni scrittore!), mi è sembrato il caso di togliere questa maschera da persona seria, finta intellettuale ed accanita ficcanaso per dare un senso alle mie parole, o almeno provarci.
Il gatto fa le fusa accanto a me. Che noia, mi dico. Anche nel tentativo di sembrare una persona affabile risulto essere decisamente seria e didascalica.

Che altro? Mi piace scrivere, davvero tanto, e non me la cavo troppo male (o almeno questo è ciò che mi è stato detto dai poveri beta readers che ho assillato). Scrivo poesie, racconti, frammenti ed ho iniziato da poco un romanzo (che per ora non ha ancora l'onore di poter essere definito tale). Ma voglio anche scrivere di me perché uno (pseudo)scrittore che non riflette su se stesso è decisamente un pessimo scrittore. Rischierebbe invece di diventare un pedante erudito, rinchiuso fra le alte pile dei propri libri, incapace di alzare lo sguardo verso la finestra. Nel mio caso, questa finestra non dà solo sul giardino - fra poco è primavera e sarà uno spettacolo- ma soprattutto sul mio mondo interiore. Pensate alla finestra della Woolf, intesa proprio come simbolo dell'interiorità, come piccolo contatto fra il proprio io ed il resto del mondo, come sguardo su di sé. Nel tentativo di esorcizzare questa prospettiva mi dedico all'autoanalisi, davanti ad un pubblico di anonimi lettori.

Non garantisco nulla di buono, anche se ho moltissime idee per la testa. Mi piacerebbe condividere opere, parole, immagini, persone-autori che mi hanno particolarmente colpita e che vorrei far scoprire a più persone possibili. Sfruttare questo aspetto di Internet (che forse non è solo utile per stalkerare e guardare video idioti) mi dà decisamente molta soddisfazione, mi fa sentire meno pigra e perdigiorno, soprattutto quando rimango inchiodata per ore davanti ad uno schermo. Potreste vedere questo blog come un pretesto -e forse lo è- ma che importa se mi aiuta?

Un autoinganno come tanti altri, d'altronde non è un caso che io ami così tanto soffermarmi su questo aspetto: Svevo ed il suo Zeno lo hanno ben dimostrato. Ed in quanto sveviana (convinta) non mi voglio smentire. Ma tornerò a parlare di Svevo e dei suoi adorabili personaggi al più presto, nel tentativo di fare proselitismo.

Per ora direi che può bastare, spero di non aver abusato del vostro tempo. Il gatto intanto ha dormito per un'ora, s'è svegliato e s'è impossessato temporaneamente della mia tastiera. E' decisamente difficile parlare e scrivere di se stessi, ancora di più se una palla di pelo cerca di mettere un freno ai miei migliori propositi.
A presto.