sabato 4 maggio 2013

Chi semina vento raccoglie tempesta

Non vorrei disturbare ma mi tocca. Mi cimento nell'arte della critica (moderatissima e ridicolmente dilettantesca) pur consapevole del fatto che non ne sarò mai capace. Perché? Semplicemente perché elogio ciò che ho apprezzato e non scrivo molto volentieri di ciò che mi ha lasciato indifferente. Che razza di critica sarei? Non lo sarei di certo. Ma proviamoci. Premetto di essermi avvicinata a questo film con l'ingiusto pregiudizio del valore del cinema indipendente. E da buon film indipendente presenta una tematica sempre difficile o, per meglio dire, controversa.


Di cosa si tratta? E ora parliamo di Kevin tratta di amore ed odio, maternità e sacrificio, psicologia e violenza. Sembra semplice ma in realtà non lo è, perché è impossibile riuscire a scorgere bene i limiti di ogni componente. Il film si propone come autoanalisi da parte di una madre che ha subìto ed indirettamente causato una tragedia immane, compiuta dal figlio sedicenne. Si guarda allo specchio e si chiede: In cosa ho sbagliato?. Lo stesso fa il carnefice nel momento in cui gli viene chiesto il motivo della violenza: Cos'è andato storto? Perché ciò che ho fatto sembra non aver più ragion d'essere? ("Credevo di saperlo, ora non ne sono più sicuro"). Ma la riflessione del ragazzo è breve, troppo breve ed allora tutto ciò che rimane è un senso di profonda angoscia nel pubblico inorridito.

Incapacità di credere che da piccole vicende famigliari, da egoistici risentimenti possa nascere un odio così profondo e totalizzante.Angoscia ben radicata, dall'inizio alla fine del film che si propone come una ricostruzione fitta di ricordi, simboli e colori. Il rosso domina. La sensazione che si prova è di sgomento: l'odio lascia tracce dietro di sé ma nessuna ragione valida. Il confronto riguarda in maniera sostanziale solo due personaggi, la madre ed il figlio, tutti gli altri sono solo comparse e figure secondarie nel teatro delle loro azioni. Molte recensioni propendono per il punto di vista della madre che, di certo, viene continuamente messa a durissima prova da parte del figlio, dal suo atteggiamento restio ad ogni tipo di comunicazione. Il fulcro però è l'odio, la mancanza, ciò che non viene fatto, ciò che non viene detto. A partire quasi da metà del film ci si rende conto che non ci sia piena colpevolezza da nessuna delle due parti, è come se entrambi fossero dominati da una sostanza impalpabile, più triste ed inesorabile, che li porta ad agire e non agire. Lo spettatore non riesce a prendere una posizione razionale e ben argomentata, perché il male nasce proprio dallo scontro di forze opposte che non si riescono a legare, il male è causa e conseguenza al contempo.

Forse anche per questo le scene risultano essere circolari: il regista le giostra in modo tale da farle tornare sempre su se stesse, riprendendo un passaggio e completandolo in maniera sempre meno superficiale. La sensazione di scavo accresce la tensione emotiva, la volontà di capire, di scoprire cos'è successo ma soprattutto perché. Il cosa ed il come ci vengono rivelati ma un vero, onesto "perché" non viene espresso perché l'astio non ha motivi lucidi ed inconfutabili.

L'odio si trascina dietro l'astio ed il rancore, passato attraverso il cordone ombelicale, nutrito con l'orgoglio di due persone sole, tremendamente sole nel proprio conflitto. Un dover amare, a tratti forse un sincero "voler" amare, che non riuscirà mai a colmare il vuoto dell'amore sincero e soprattutto spontaneo. La madre che vorrebbe amare e lasciarsi amare dal figlio, il figlio che vorrebbe essere ricompensato di tutto ciò che gli è mancato e che vorrebbe poi ridare in maniera disinteressata, forse. Ma non rimane nulla di tutto ciò, solo indifferenza ed astio manifesto. Nessuno dei due si concede, nessuno è abbastanza debole da permettersi di perdere di fronte all'altro.

Questo filo rosso (colore dominante attraverso diversi elementi) ed estremamente complesso non è mai espresso, ma visivamente rappresentato. Le scene rimangono impresse, sicuramente in maniera più efficace delle parole che tendono a banalizzare. Viene tratteggiata, con tinte più o meno fosche, la cecità dell'odio che finisce per dimenticare le proprie ragioni, ma che spiattella le proprie origini, quotidiane ed apparentemente insignificanti.

Non vi resta che prendere un respiro profondo: immergete la testa e guardate nel passato insieme alla madre, percepite la sua ostinazione nel continuare la propria vita in maniera indipendente, provate il suo senso di colpa nel momento in cui scopre che il figlio sa ben leggere dietro la sua indifferenza, e che per questo si ribella in maniera istintiva (anche se a tratti l'atteggiamento del ragazzino è fin troppo enfatizzato, tanto da far perdere credibilità al personaggio) ed inizia ad odiare. Una vendetta che la lascerà priva di forze e di speranze. Le radici del male, certo, ma anche l'impossibilità di mostrarlo a tuttotondo. Un vero e proprio pugno nello stomaco, fra suspense ed incredulità. Non è di certo un film leggero né d'evasione ma merita assolutamente uno sguardo attento ed indagatore; inoltre i continui richiami (attraverso simboli e colori) fra una scena e l'altra aiutano a mantenere viva l'attenzione del pubblico, che presumibilmente andrebbe scemando se l'intento autoanalitico del film fosse stato reso con una struttura lineare (decisamente noiosa). E' un film davvero significativo.

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